Ceci n'est pas un blog


Anche se ne ha tutto l'aspetto, questo non è un blog ma una raccolta di articoli di attualità musicale scritti da me tra il 1998 ed il 2000 e pubblicati su un giornalino locale.
All'articolo originale seguono le info sugli album tratte da Wikipedia.
Il blog è aggiornato all'11 settembre 2000 (giorno di consegna dell'ultimo articolo) e NON sarà mai più aggiornato.
Se ti piacciono le cose che hai letto qui, puoi trovarne delle altre sul mio nuovo blog musicale Alla ricerca del Vinile Perfetto oppure sulla pagina Facebook Vinile Istruzioni per l'Uso.

mercoledì 18 ottobre 2023

Binaural, il nuovo album dei Pearl Jam - La Recensione




I Pearl Jam sono senza dubbio dei "copernicani".
 Nella loro visione, al centro del mondo non c'è l'artista, ovvero se stessi, e nemmeno l'arte, nel caso specifico la musica.
"Ricordate Billy Murray? E' stata una delle prime star a incidere dischi. Veniva dal vaudeville ed era specializzato nella lettura drammatica di canzoni come Take Me Out To The Ballgame, Meet Me In St. Louis, Louie e By The Light Of The Silvery Moon. Tra il 1903 e il 1927, 169 sue canzoni entrarono nelle charts, di cui 18 al numero uno. Era la star dell'epoca, e oggi nessuno ha idea di chi sia. Lo stardom è un'illusione. Come musicisti, tutto ciò che possiamo fare è provare a lanciare un po' di cose nell'atmosfera".
Sono parole di Eddie Vedder, leader dei Pearl Jam.
Per il gruppo il fulcro del "sistema", è il pubblico, da rispettare e di cui essere fieri. E nel corso dei quasi dieci anni di carriera la band ha disseminato tante prove della speciale considerazione in cui tiene quella enorme schiera di ragazzi dai volti confusi, senza un nome, che affolla i suoi concerti e compra i dischi.
Nella realizzazione di Binaural i Pearl Jam hanno voluto probabilmente esprimere non solo iconograficamente, ma anche tecnicamente la "gerarchia" tra le componenti del "sistema". Il "binaurale" è infatti una particolare tecnica di registrazione, che considera la testa umana e le orecchie come un'antenna, pronta ad assecondare gli stimoli sonori.
Nasce così un apparato frutto della tecnologia che si compone proprio di una "testa" e di una serie di sofisticati microfoni, da collocare nel punto esatto in cui dovrebbe porsi l'ascoltatore per meglio fruire di una performance musicale.
La simulazione della diretta percezione da parte dell'individuo.
I Pearl Jam hanno così assoldato Tchad Blake, produttore con esperienze di registrazione binaurale assieme ad artisti della Real World di Peter Gabriel, nell'intento di porre al centro della sala di incisione il proprio pubblico, per regalargli un'esperienza d'ascolto il più spontanea e naturale possibile. E ci sono riusciti, anche se il missaggio (in sette brani opera di Brendan O' Brien, produttore dei precedenti album della band) ha sporcato l'integrale applicazione della tecnica binaurale.
Al di là delle consuete, intense liriche, Binaural è soprattutto un'esperienza d'ascolto. I suoni sono puliti ma non innaturali, ricordano piuttosto quelli di passate e gloriose stagioni del rock, soprattutto per una precisa scelta timbrica delle chitarre. Riferimenti che i Pearl Jam non hanno mai nascosto, incuranti di chi li accusa di essere derivativi. E in Binaural gli antichi maestri ritornano in auge, aiutando la band a dare corpo a un disco denso liricamente e musicalmente.
L'energia profusa a piene mani nei primi solchi del disco (Breakerfall, God's Dice e Evacuation), scanditi da break e cambi di tempo, è molto più vicina al furore liberatorio degli Who che all'asprezza del punk. Nel singolo Nothing As It Seems, criptico brano folky innervato da un "bordone", brilla in lontananza una chitarra liquida che cita palesemente i Pink Floyd. Anche il particolare tocco di Matt Cameron, ex batterista dei Soundgarden, è assolutamente decisivo in tutto l'album e si rifà a passati rock come in O The Girl, molto simile a 57 Channels And Nothing On di Springsteen.
L'anima post-punk dei Pearl Jam torna davvero in auge solo in Grievance, mentre uno degli episodi più nuovi per la band è la spettrale fusione rumoristica tra voce e strumenti di Sleight Of Hand. Poi Vedder imbraccia l'ukulele, un particolare tipo di chitarra hawaiana a quattro corde, in Soon Forget seguita dalla struggente Parting Ways che chiude il lavoro.
Un album complesso, ricco di suoni e sfumature assolutamente inconsuete confrontate ai precedenti lavori dei Pearl Jam. Un grande disco di rock, come forse non se ne producono più.
Probabilmente l'opera che segna la maturità del gruppo, anche alla luce del fatto che stavolta non è il solo Vedder a firmare i testi.
Due sono le canzoni scritte dal bassista Jeff Ament (Nothing As It Seems e God's Dice), tre addirittura dal chitarrista Stone Gossard (Thin Air, Of The Girl e Rival), mentre anche Cameron dice la sua scrivendo la musica di Evacuation. Un lavoro a più mani, per una band che è sempre più "band". Il tour mondiale dei Pearl Jam partirà il 23 maggio da Lisbona e sarà in Italia il 20 e 22 giugno (Arena di Verona e Filaforum di Assago).
E ad ascoltarli non ci sarà più una "muta testa meccanica".

martedì 20 giugno 2000


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La scheda dell'album da Wikipedia:
Binaural

ArtistaPearl Jam
Tipo albumStudio
Pubblicazione16 maggio 2000
Durata51 min : 58 s
Dischi1
Tracce13
GenereHard rock
Alternative rock
Grunge
EtichettaEpic Records
ProduttoreTchad Blake, Pearl Jam
Registrazionepresso Studio Litho aSeattle, Washington

Tracce 

  1. Breakerfall (Vedder) - 2:19
  2. Gods' Dice (Ament) - 2:26
  3. Evacuation (Cameron, Vedder) - 2:56
  4. Light Years (Gossard, McCready, Vedder) - 5:06
  5. Nothing as It Seems (Ament) - 5:22
  6. Thin Air (Gossard) - 3:32
  7. Insignificance (Vedder) - 4:28
  8. Of the Girl (Gossard) - 5:07
  9. Grievance (Vedder) - 3:14
  10. Rival (Gossard) - 3:38
  11. Sleight of Hand (Ament, Vedder) - 4:47
  12. Soon Forget (Vedder) - 1:46
  13. Parting Ways (Vedder) - 7:17

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Giubileo in Musica: Delta V a Roma


Il Giubileo appena iniziato pone la città di Roma al centro dell’attenzione e il pretesto religioso sarà un trampolino di lancio per tutta una serie di manifestazioni musicali e culturali in genere che si svolgeranno nel corso dell’anno. 
Il calendario dei concerti previsti per l’anno 2000 è uno dei più ricchi di ospiti internazionali che la città abbia mai avuto. Sono già state confermate le date dei Rage Against the Machine, che saranno nella capitale a febbraio, di Steve Vai, storico chitarrista di Frank Zappa a marzo, di Ben Harper e dei Dream Theatre ad aprile e di Sting a maggio.

Il mese di gennaio, si sa, da questo punto di vista è un mese di transizione, vuoi perché le feste natalizie esauriscono gran parte delle “energie vitali”, vuoi perché il clima non è dei più adatti per ospitare eventi che in genere avvengono all'aperto.
La mancanza di grandi eventi, però, non determina la cessazione dell’attività. Molte sono le proposte per gli amanti della musica On Stage. Innanzitutto quelle fatte da tre locali (Palacisalfa, Big Mama e Il locale) che tutte le sere, anche a gennaio, propongono quanto di meglio possa offrire il circuito musicale romano: da Roberto Ciotti (l’8 e il 29 al Big Mama, lo storico locale Blues di Trastevere) a La Sintesi (il 20 a Il locale, nel quartiere di San Lorenzo) passando per i Più Bestial che Blues, Gino Marulla, Kreator e Moonspell.
Il vero evento del mese, però, è costituito dall’arrivo nella capitale dei Delta V. Il gruppo, giunto al successo nell’estate del 1998 con il singolo “Se Telefonando”, cover dub della celebre canzone di Mina, si riconferma con l’album Spazio, uscito alla fine del ’98, e con il successivo Psychobeat, come uno dei gruppi che ha meglio saputo integrare la canzone tipica della tradizione musicale italiana con le nuove sonorità elettroniche d’oltremanica. Il loro tour, iniziato lo scorso ottobre, si fermerà a Roma il 24 gennaio. Il concerto, che si terrà al Palladium, proporrà una ampia sezione dell’ultimo album più una serie di brani del precedente reinterpretati dalla nuova cantante Luana Heredia.

venerdì 7 gennaio 2000


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Bluvertigo - Si riparte da Zero - La Recensione



I Bluvertigo sono un vero fenomeno della musica italiana. Un gruppo musicale che va oltre la musica, che sembra metterla in secondo piano.
A loro interessa la loro immagine, il mito che si è creato attorno a loro, il loro successo: tutti ne parlano, ma nessuno si sbilancia. Tutti citano “Zero” ma pochi danno segno di averlo davvero ascoltato. Parecchi sorridono in faccia e mostrano perplessità alle spalle. Fioccano interviste al gruppo in cui si parla di tutto tranne che del disco.
Perché?
Due le ipotesi. Uno: “Zero” non è stato ascoltato al punto da poterne parlare.
Due: “Zero” è un disco che non si accontenta delle sommarie recensioni con cui in genere si liquidano i dischi pop.
Ma al di là del look, al di là delle serate mondane (il disco è stato presentato durante una cena in un ristorante cinese dove erano presenti, tra gli altri Enrico Ghezzi, Elisabetta Sgarbi, Alda Merini e Franco Battiato), al di là dei libri, delle performance artistiche, delle apparizioni in tv e di tutto ciò che un gruppo che si definisce un progetto musicale può realizzare, dobbiamo sempre partire dalle basi per poter dare un giudizio oggettivo di un fenomeno. E per un gruppo musicale partire dalle basi significa ascoltare la loro musica. E per i Bluvertigo la musica, dal 14 ottobre, significa una sola parola: Zero.
L'album è la fine di un ciclo per il gruppo che arriva alla fine di un decennio, gli anni novanta, che li hanno consacrati come uno tra i prodotti più interessanti della musica Italiana. Ma è necessario andare avanti, siamo alla fine di un intero millennio, l’inizio di una nuova era: Zero, appunto.
E’ lo stesso Morgan, cantante, bassista, arrangiatore, produttore e leader del gruppo a dare una spiegazione al titolo: “Il primo album della "trilogia chimica" iniziava con la "A" di "Acidi e basi", il secondo si chiamava con la lettera centrale "M" ("Metallo non metallo"), e quindi questo doveva iniziare con la "Z" lettera finale dell'alfabeto”. Dunque un album che chiude una trilogia ed un millennio e che vorrebbe essere una sintesi dialettica di tutto il lavoro precedente. Ed effettivamente lo è, nel bene e nel male.
Non si tratta di un disco della maturità, ma dell’esasperazione delle caratteristiche che hanno posto i Bluvertigo al centro dell’attenzione del pubblico; i loro pregi ma anche i loro difetti.
Sì, i loro difetti. E pensare che erano stati loro stessi ad assicurarci che Zero sarebbe stato un disco meno concettuale dei suoi predecessori, un disco di musica pop, e “la crisi”, singolo assai lucido uscito già da qualche mese, sembrava confermarci queste tesi.
Ma non è così. Al primo ascolto, infatti, l’album risulta subito lungo, un po’ presuntuoso, molto narcisistico, denso di citazioni, e in questo senso riflette perfettamente i difetti principali del gruppo. Non che i testi siano privi di contenuto, anzi, forse peccano di eccessiva profondità intellettuale, una profondità che, inserita in un contesto commerciale, quale è quello in cui opera il gruppo, risultano a volte inopportuni.
Forse è proprio quell'egocentrismo e quella mancanza di umiltà, che caratterizzano i testi di Morgan, ad impedirgli un’operazione di autocritica e ad indurlo a commettere sempre gli stessi errori. Ciò che egli non ha capito è che non necessariamente una buona poesia è un buon testo per una canzone, così come non necessariamente un buon poeta (e che sia un buon poeta lo ha dimostrato recentemente in un libro pubblicato da Bompiani: Dissoluzioni), è sempre un buon paroliere.
E, sinceramente, questo è un vero peccato perché, da un punto di vista musicale, Zero, come del resto i suoi predecessori, è una vera e propria esplosione sonora, in cui intuizioni azzeccatissime e originali si fondono a citazioni più o meno colte. Si va dalla voce di Malcolm X, che apre l’album, fino alle atmosfere elettroniche e industriali di stampo Nine Inch Nails (Sono = sono e Lo psicopatico), passando per la New Wave anni ottanta, i Duran Duran, i Depeche Mode e, naturalmente, David Bowie, molto David Bowie di cui ripercorrono l’intera carriera (riff glam da “Hunky dory” e “Ziggy Stardust”, pianoforte di “Aladdin sane”, basso funky modello “Station to station” e “Fame”, chitarre da “Scary monsters” e Tin Machine, ritmica&sax da “Tonight” (“Blue Jean”) e addirittura una cover – “Always crashing in the same car” – risalente al periodo berlinese del Duca Bianco), e ancora spunti hard rock, ballate (La comprensione), jazz (Porno muzik), fino alla vera e propria sperimentazione (Versozero).
Ma ciò che rende i Bluvertigo un gruppo davvero straordinario nel panorama musicale italiano, oltre all'originalità e alla capacità di saper riformulare e confutare il passato, è la loro sensibilità sonora, il saper trasferire materialmente su un supporto le loro idee musicali. Basta ascoltare il cd in cuffia per notare le numerose sfumature strumentali, calcolate fino ai minimi dettagli.
A conti fatti, dunque, il successo e l’attenzione che suscitano i Bluvertigo è più che meritata. Zero è comunque uno dei pochi prodotti commerciali in circolazione ora in Italia che riesce a conciliare le richieste e le forme del mercato con una sostanza musicale di una certa qualità.
Qualora un giorno riescano ad ovviare anche ai loro difetti letterari credo che ci troveremmo di fronte ad un frammento della storia della musica pop del nostro paese.

martedì 30 novembre 1999

 

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La scheda dell'album da Wikipedia:
Zero - ovvero la famosa nevicata dell'85 

ArtistaBluvertigo
Tipo albumStudio
Pubblicazione1999
Durata66 min : 28 s
Dischi1
Tracce16
GenereRock elettronico
Synth pop
Elettropop
EtichettaMescal
ProduttoreMorgan

Tracce 

Tutti i brani sono testo e musica di Marco Castoldi, tranne dove indicato.
  1. Versozero - 0:51 - (Bluvertigo - Marco Castoldi)
  2. Zero - 5:10 - (Bluvertigo - Marco Castoldi)
  3. La crisi - 3:57
  4. Sono=Sono - 3:45
  5. La comprensione - 4:09
  6. Finché saprai spiegarti - 4:56
  7. Sovrappensiero - 4:51
  8. Forse - 7:16 - (Marco Castoldi - Andrea Fumagalli, Marco Castoldi)
  9. Autofraintendimento - 5:23
  10. Lo psicopatico - 5:10
  11. Always Crashing in the Same Car - 3:58 - (David Bowie)
  12. Saxs interlude - 0:39
  13. Porno muzik - 2:26 - (Bluvertigo - Marco Castoldi)
  14. Niente x scontato - 5:11
  15. Numero - 3:37 - (Marco Castoldi - Carlo Carcano, Marco Castoldi)
  16. Punto di non arrivo - 5:09

Formazione 

  • Morgan - voce, percussioni, chitarra, basso, piano, sintetizzatori
  • Andy - sintetizzatore, voce, sax
  • Sergio Carnevale - batteria, percussioni
  • Livio Magnini - chitarra, percussioni

Contributi 

  • Franco Battiato - voce in Sovrappensiero e Punto di non arrivo, haiku in Sovrappensiero
  • Mauro Pagani - violino in VersozeroAutofraintendimento
  • Davide Rossi - violino in AutofraintendimentoNumero
  • David Richards - lambo, mellotron in Always crashing in the same car
  • Alfredo Zamarra - viola in Numero
  • Roberta Castoldi - violoncello in Numero e Punto di non arrivo, voce in Niente x scontato
  • Murray Lachlan Young - voce recitante in Punto di non arrivo

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Chemical Brothers - Surrender - La Recensione



IN DUST WE TRUST

A circa due anni dal loro ultimo album (Dig Your Own Hole), dopo aver vinto un Grammy Award per il miglior brano rock strumentale con la canzone Black Rockin’ Beats, due premi MTV Buzz e aver realizzato un album (Brothers Wonna Work It Out) dove remixavano i loro brani preferiti realizzati da altri artisti, tornano i Chemical Brothers con un lavoro nuovo di zecca.

Per gli amanti della musica elettronica, è sempre un piacere venire a sapere dell’uscita di un nuovo album del duo inglese, vero e proprio iniziatore del genere.
Anche dei guru di questo genere musicale quali Fat Boy Slim e i Prodigy hanno più volte ammesso che il loro lavoro sarebbe stato molto più difficile se i Chemical Brothers non gli avessero spianato la strada.
Giovanissimi, Tom Rowlands è del 1971 mentre Ed Simons è del 1970, i due si incontrano per la prima volta all’inizio degli anni novanta a Manchester, entrambi dj dell’Hacienda, la discoteca più cool d’Inghilterra.
Pochi mesi dopo decidono di formare un gruppo, dapprima chiamato The Dust Brothers, poi trasformatosi in Chemical Brothers.
Non è azzardato affermare che sono stati loro a trasformare la musica da discoteca da una serie di suoni rozzi, spesso retti dal solo kick di batteria, in un vero e proprio genere musicale in grado di fuoriuscire dal circuito dei locali underground e divenire delle vere e proprie hit alla portata di tutti. E hanno fatto tutto questo in pochissimo tempo, basti pensare che quello appena uscito è il loro terzo album.
Surrender, questo è il titolo del nuovo lavoro, presenta undici tracce in stile Chemical.
La radice è sempre la stessa: base di suoni campionati da qualsiasi fonte sonora, con l’aggiunta di suoni sintetizzati o di strumenti tradizionali, ma stavolta tutto è più elaborato. Cambi di tempi più frequenti, melodie meno scontate e distribuzione del tempo più razionale.
Il salto di qualità lo troviamo già nel singolo che ha preceduto l’album Hey boy, hey girl, ma è in altri brani del disco quali Let forever be, cantata da Noel Gallagher, chitarrista degli Oasis, che aveva già collaborato con loro nel precedente album, o in Surrender che da il titolo all’album, o nella paranoica ma splendida Got Glint?, che danno il meglio.
In un intervista concessa qualche giorno fa dai Chemical ai fan sul loro sito ufficiale, Tom ha spiegato qual è il segreto del loro successo.
“Ogni album è una sfida”, dice “dobbiamo riuscire a fare sempre qualcosa di migliore dell’album precedente, per dimostrare prima di tutto a noi stessi che il nostro successo non è casuale, né una montatura dei media…”
Poco dopo riconosce che questo nuovo lavoro non ha deluso le loro aspettative “ Semmai,” aggiunge Ed, “siamo preoccupati perché la prossima volta dovremo fare ancora meglio”.
Ma intanto hanno tutto il diritto di godersi la gloria del nuovo successo.
Anche se sono del parere che non bisogna mai abusarne.
Nella stessa intervista, infatti, Ed sostiene che se da una parte la celebrità gli ha portato indubbi vantaggi, dall’altra essa riserva molte scocciature, per cui loro preferiscono frequentare le stesse persone e gli stessi locali che frequentavano prima e fare sostanzialmente le stesse cose che facevano prima di diventare i Chemical Brothers.
Come accade di solito le canzoni sono tutte strumentali ed ogniqualvolta decidono di aggiungere un testo ai loro brani, preferiscono chiamare altri artisti che prestano la loro voce.
Oltre alla già citata Let forever be cantata da Gallagher, abbiamo altre tre tracce cantate da ospiti d’eccezione: Out of control cantata da Bernard Summer dei New Order e Bobbie Gillspie dei Primal Scream, la ballata elettronica Asleep From Day con la voce di Hope Sandoval dei Mazzy Star e Dream On che chiude l’album
realizzata in collaborazione di Jonathan Donahue dei Mercury Rev.
A metà strada tra Dj’s e musicisti (anche se in realtà la loro tecnica musicale si limita a spingere qualche pulsante e girare qualche manopola), tra la più grande truffa degli ultimi anni e i geni sonori della fine del XX secolo, i Chemical Brothers con Surrender, confermano di essere una delle realtà più rilevanti della musica elettronica di oggi.

lunedì 5 luglio 1999


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La scheda dell'album da Wikipedia:
Surrender

ArtistaThe Chemical Brothers
Tipo albumStudio
Pubblicazione21 giugno 1999
Durata58 min : 01 sec
Dischi1
Tracce11
GenereMusica elettronica
EtichettaVirgin
ProduttoreThe Chemical Brothers
Registrazione1998

Tracce 

CD (Virgin 8476102 (EMI) / EAN 0724384761028)[1]
  1. Music Response – 5:20
  2. Under the Influence – 4:16
  3. Out of Control – 7:20 – (feat. Bernard Sumner)
  4. Orange Wedge – 3:07
  5. Let Forever Be – 3:56 – (feat. Noel Gallagher)
  6. The Sunshine Underground – 8:38
  7. Asleep from Day – 4:47 – (feat. Hope Sandoval)
  8. Got Glint? – 4:51
  9. Hey Boy Hey Girl – 4:30
  10. Surrender – 4:30
  11. Dream On – 6:46 – (feat. Jonathan Donahue)
Durata totale: 58:01

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IS THERE ANYBODY OUT THERE? Il live di “The Wall” - La Recensione


The Wall Live

Un altro mattone sul Muro

E’ successo quello che doveva succedere.
Sono anni che legioni di fans dei Floyd si mordono le mani pensando a come doveva essere il live di “The Wall”, l’album più ambizioso della carriera del gruppo, nato da un momento di profonda frustrazione e autoanalisi da parte di colui che del gruppo era, a quel tempo, il leader indiscusso, Roger Waters.
I 28 concerti che seguirono la pubblicazione dell'album e che lo eseguivano per intero, infatti, era quanto di più mastodontico fosse mai stato concepito da un gruppo musicale fino ad allora.
Nella prima parte, mentre la band suonava, una squadra di 44 operai aveva un bel daffare nel tirare su 420 mattoni e creare THE WALL, appunto, una creatura alta 10 metri e lunga 50.
Da dietro quel muro i Floyd consumavano la seconda parte dello show, lasciando il ruolo di protagonisti agli orrifici pupazzi semovibili di Gerald Scarfe, salvo fare rare sortite da un buco del muro (“Goodbye cruel world”) o sprigionare potenza in assoli vertiginosi (“Comfortably numb”) per poi crollare alla fine del concerto restituendo i 4 musicisti al pubblico cui loro stessi si erano sottratti la maggior parte del tempo.
Il tutto mentre le canzoni ripercorrevano le tappe di un’alienazione progressiva del protagonista della storia, una star dal nome Pink che il successo sta chiudendo sempre più in una gabbia dorata, sempre più distante e spaventato da contatti con il prossimo.
Mentre si consuma la tragedia di Pink, vengono affrontati anche altri temi: l’inadeguatezza del sistema scolastico (racchiusa nell’anthem WE DON’T NEED NO EDUCATION), la massificazione delle giovani coscienze, il fantasma della guerra mondiale con i suoi infiniti lutti (il padre di Waters è morto durante lo sbarco degli alleati ad Anzio, in Italia), la mancanza di figure di riferimento in grado di comprendere la natura delle nuove generazioni: l’alienazione del protagonista riflette anche, in modo più laico e geniale, l’isolamento che si prova in una fase dell’adolescenza, quando si pensa che nessuno sia in grado di capire e consolare i propri problemi.
Finalmente dopo più di venti anni tutti possono rivivere quei concerti-evento grazie all'uscita di Is There Anybody Out There?: The Wall Live 1980-1981 live recentemente dato alle stampe da Waters e soci.
Il disco, che ripercorre nella scaletta i brani dell'album con l'aggiunta di due inediti, è un resoconto fedele della musica di quelle serate ed è costruito selezionando i brani a partire dalle registrazioni di sette concerti in possesso della band.
Al di là degli inediti, che non aggiungono nulla a quanto già noto ("What shall we do now?” è un brano di poco più di un minuto e l’altro, “The Last Few Bricks”, un medley strumentale di tre pezzi che fanno parte del disco, e ha l’unico scopo di dare ai tecnici il tempo necessario per finire di montare il muro), l'album è comunque una fotografia che documenta uno degli spettacoli più importanti forse della musica di sempre.

Macabro e totalitarista, violento e paranoico, il muro dei Floyd è l’icona sulla quale, da subito, legioni di fans del rock hanno proiettato le proprie paure e le proprie ombre.
E, proprio come un’icona, a vent’anni di distanza continua ad irradiare tutto il suo fascino.

martedì 4 aprile 2000


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The Wall in Vinile




Su The Wall ho scritto anche UN POST sul blog Alla Ricerca del Vinile Perfetto, la versione aggiornata di questo blog
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La scheda dell'album da Wikipedia:
Is The Anybody Out There?

ArtistaPink Floyd
Autore/iPink Floyd
GenereRock progressivo
Pubblicazione
IncisioneThe Wall
Data1979
Durata2:44

Tracce

Disco 1
  1. Master of Ceremonies – 1:13
  2. In the Flesh? – 3:00
  3. The Thin Ice – 2:49
  4. Another Brick in the Wall (Part I) – 4:13
  5. The Happiest Days of Our Lives – 1:40
  6. Another Brick in the Wall (Part II) – 6:19
  7. Mother – 7:54
  8. Goodbye Blue Sky – 3:15
  9. Empty Spaces – 2:14
  10. What Shall We Do Now? – 1:40
  11. Young Lust – 5:17
  12. One of My Turns – 3:41
  13. Don't Leave Me Now – 4:08
  14. Another Brick in the Wall (Part III) – 1:15
  15. The Last Few Bricks – 3:26
  16. Goodbye Cruel World – 1:41
Disco 2
  1. Hey You – 4:55
  2. Is There Anybody Out There? – 3:09
  3. Nobody Home – 3:15
  4. Vera – 1:27
  5. Bring the Boys Back Home – 1:20
  6. Comfortably Numb – 7:26
  7. The Show Must Go On – 2:35
  8. Master of Ceremonies – 0:37
  9. In the Flesh – 4:23
  10. Run Like Hell – 7:05
  11. Waiting for the Worms – 4:14
  12. Stop – 0:30
  13. The Trial – 6:01
  14. Outside the Wall – 4:27

Formazione

  • David Gilmour: Chitarra, voce
  • Roger Waters - Basso, chitarra, voce
  • Richard Wright - Tastiere
  • Nick Mason - Batteria, percussioni
  • Snowy White - Chitarra
  • Willie Wilson - Batteria, percussioni
  • Andy Bown - Basso
  • Peter Wood - Tastiere
  • Andy Roberts - Chitarra
  • Stan Farber - Coro
  • Joe Chemay - Coro
  • Jim Haas - Coro
  • John Joyce - Coro
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martedì 17 ottobre 2023

L’altra faccia dell’America - The Marshall Mathers di Eminem - La Recensione


Il rapper biondino è tornato, più distruttivo che mai.
Marshall Mathers, in arte Slim Shady, o più semplicemente Eminem, ricomincia la propria battaglia dissacrante contro i miti del pop internazionale, e lo fa con i suoi testi scurrili ma divertenti, piazzandosi stabilmente al top della chart USA ormai da diverse settimane.
Da qualche giorno il suo secondo cd, "The Marshall Mathers LP", è in vendita anche in Italia, ed il suo successo sarà assicurato. Eminem, l'unico rapper bianco ad aver conquistato il rispetto del mondo del black-rap americano, questa volta punta il dito contro la mania dilagante delle boy-band, a suo giudizio finte come non mai.
Nel primo single tratto dall'album, "The real Slim Shady", Eminem prende di mira star come i Backstreet Boys, Briteny Spears, Christina Aguilera, Pamela Anderson, Tommy Lee e Will Smith.
Di essi non perdona il loro mostrare una vita fatta di "uccellini, amori felici, alberelli e sorrisi"; una vita finta, che non esiste in realtà, soprattutto per chi ha avuto un'infanzia come la sua (madre minorenne e padre ignoto, infanzia vissuta in strada, in coma a 9 anni per una rissa, padre di una bimba a 22 anni...).
In realtà non è solo con i big che si accanisce l'ira del rapper: Eminem non disdegna di colpire i familiari, o addirittura la moglie Kimberly, alla quale ha dedicato una canzone, "Kim", in cui viene apostrofata con "Bitch" (prostituta) almeno una ventina di volte, e minacciata di morte per un altro paio.
Il suo carattere irriverente è stato il principale motivo del suo successo; la sua mancanza di rispetto per le regole, i suoi testi sarcastici, i suoi video-capolavori, degni del miglior stile "American-pie" anni '80, ne hanno fatto un autentico caso discografico negli USA.
Certo qui in Italia, senza l'apporto diretto dell'effetto delle parole (ovviamente in inglese) i suoi brani risulteranno meno dirompenti, ma se non altro rappresentano una novità rispetto alla media dei più recenti "prodotti da esportazione" americani.
Il disco, satirico ed irriverente, è da consigliare se avete una buona dimestichezza con la lingua ed un po' di tempo per sorridere, altrimenti provate a dare uno sguardo ai video, in onda su tutti i principali canali musicali del globo, e tutto vi sarà più chiaro...

lunedì 11 settembre 2000


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La scheda dell'album da Wikipedia:
The Marshall Mothers


ArtistaEminem
Tipo albumStudio
Pubblicazione23 maggio 2000
Durata72 min : 05 s
Dischi1
Tracce18
GenereRap
Hardcore rap
Midwest rap
Horrorcore
EtichettaAftermath Entertainment
Interscope Records
ProduttoreDr. Dre
Eminem
Registrazione1999-2000

Tracce 

  1. Public Service Announcement 2000
  2. Kill You
  3. Stan (feat. Dido)
  4. Paul (skit)
  5. Who Knew
  6. Steve Berman (skit)
  7. The Way I Am
  8. The Real Slim Shady
  9. Remember Me? (feat. RBX & Sticky Fingaz)
  10. I'm Back
  11. Marshall Mathers
  12. Ken Kaniff (skit)
  13. Drug Ballad
  14. Amityville (feat. Bizarre)
  15. Bitch Please II (feat. Dr. Dre, Snoop Dogg, Xzibit, Nate Dogg)
  16. Kim
  17. Under the Influence (feat. D12)
  18. Criminal

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David Bowie - Hours... - La Recensione



Gli ultimi album del millennio dovrebbero essere esemplari non soltanto in quanto summa di tutto quello che è stato fatto in questi ultimi anni, ma anche in quanto trampolino di lancio di quella che dovrebbe essere la musica del futuro.
Se questa affermazione fosse vera possiamo anche iniziare a temere il peggio.
Non so se sia un caso, ma nei mesi di settembre-inizi ottobre del 1999, c’è stata una concentrazione, come raramente se ne sono viste in passato, di nuovi lavori delle cosiddette “vecchie glorie”. Un’interminabile lista di nomi, alcuni dei quali avremmo voluto dimenticare, che confermano che anche nel 2000 la musica dovrà fare i conti con le esigenze commerciali..
Da Tom Waits a Iggi Pop, da Santana ai Clash (resuscitati dal nulla) agli Eurythmics e ai Pet Shop Boys, passando per Sting, Crosby, Still, Nash e Young, Ringo Starr, l’autobiografia di Boy George e gli italiani Den Harrow, Lucio Dalla e Antonello Venditti.
Entrando in un negozio di dischi sembra di tornare indietro di almeno quindici anni.
Ma il 5 di Ottobre un altro big ha deciso di regalarci un’ultima fatica prima del trapasso secolare. Ma non è un big qualsiasi. E’ il big per eccellenza, il Duca Bianco, David Bowie, naturalmente.
52 anni, più di trenta dischi all’attivo, David Bowie è stato ed è, forse, l’icona più rappresentativa della musica pop e non solo.
Un giornale specializzato inglese qualche anno fa sosteneva, con non poca ironia, che se un giorno giungesse un alieno sulla terra e volesse sapere tutto sulla musica degli ultimi trent’anni, gli basterebbe comprarsi tutti i dischi di Bowie.
Istrionico, il duca non si è mai fissato su un genere o su alcune particolari sonorità, ma si è sempre adattato; è cambiato con i tempi, è passato dal rock più aggressivo degli anni ’60, alle atmosfere cupe degli anni ’70 per poi formare i Tin Machine strizzando l’occhio alla new wave, alla dance e a tutto quello che ha fatto tendenza.
Immaginare poi come sarebbe stato il suo nuovo disco era praticamente impossibile in quanto doveva raccogliere l’eredità di un album estremo quale è stato Earthling, il suo precedente lavoro. Uscito nel 1997 in piena febbre elettronica, Bowie si era dato anima e corpo per cercare di inserirsi nel nuovo ambiente Jungle e Drum&Bass e lo ha fatto con questo lavoro che a mio avviso è uno dei migliori tra tutti quelli fatti da artisti che avevano intrapreso quella strada proveniendo da un altro ambito musicale.
Così ben riuscito da far pensare non tanto ad un tributo di Bowie alla musica elettronica ma ad una vera e propria conversione. Non sono passati neanche due anni ed ecco che torna con Hours…, il nuovo disco, in cui ci conferma quanto fare previsioni sul suo futuro sia inutile.
Un album spiazzante. Sinceramente non ho ancora capito se siamo di fronte ad un capolavoro o ad un semplice (leggi: inutile) ritorno al passato.
Ad un primo ascolto tutto sembrerebbe propendere per la seconda ipotesi. Le canzoni suonano tutte molto simili fra loro, le melodie sono tipicamente bowieane, quasi banali, gli arrangiamenti sono minimali, gli strumenti suonati nella maniera più canonica possibile, i debiti con il passato sono enormi, tanto con il suo passato, quello di Space Oddity, quanto alle magiche atmosfere retrò di Marc Bolan dei T-Rex (scomparso da qualche anno) in The Pretty things are going to hell, o ai suoni duri di New Angel of Promise, quasi punk, che fanno venire in mente i Sex Pistols.
Ma delle canzoni del genere divengono una cornice non solo azzeccata ma quasi necessaria quando ci si addentra nell’analisi dei testi. Il Bowie freddo e sicuro di se nella sua lotta “politically correct” contro tutto e tutti, lascia il posto ad un uomo giunto ormai ad un punto della vita in cui si comincia a fare i conti con il tempo passato e quello che ci resta, ad avere paura per quella che è la fine inevitabile di ogni essere umano: la morte. Tutto il lavoro non è altro che il trionfo di questi concetti, dalla copertina, in cui vediamo un Bowie come morto e soccorso da un angelo che ha il suo volto, quasi a sperare che dopo vi sia qualcosa, ai semplici titoli delle canzoni (Qualcosa nell’aria, Sopravvivo, Se sognassi la mia vita, Cosa sta accadendo?, Le cose più belle stanno andando all’inferno, Nuovi angeli della speranza e I Sognatori) fino, naturalmente, alle liriche. Si può pescare a caso per avere una conferma di quello che sto dicendo. In Thursday’s Child dice: "Per tutta la vita ho cercato con grande fatica di dare il meglio di me, ma non è successo nulla di bello lo stesso". In Seven: "gli dei hanno dimenticato di avermi creato così anch'io ho dimenticato loro".
In un atmosfera del genere, gli arrangiamenti semplici di cui parlavamo prima sono gli ideali per dare più risalto al testo; allo stesso tempo tornare alla musica di venti anni fa in perfetto stile Bowie diviene quasi un tentativo di esorcizzare il tempo che passa.
Un Bowie che per la prima volta parla al cuore, un Bowie che per la prima volta da più importanza ai testi che alla musica vera e propria, un Bowie come non lo avremmo mai immaginato.
Ma che non convince del tutto.

mercoledì 13 ottobre 1999


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La scheda dell'album da Wikipedia:
David Bowie - Hours...

Released4 October 1999
RecordedSeaview, Bermuda
GenreAlternative rock, art rock,experimental rock[1]
Length47:06
LabelVirgin – V 2900
ProducerDavid Bowie and Reeves Gabrels

Track listing

All songs written and composed by David Bowie and Reeves Gabrels, except "What's Really Happening?" lyrics by Alex Grant. 
No.TitleLength
1."Thursday's Child"  5:24
2."Something in the Air"  5:46
3."Survive"  4:11
4."If I'm Dreaming My Life"  7:04
5."Seven"  4:04
6."What's Really Happening?"  4:10
7."The Pretty Things Are Going to Hell"  4:40
8."New Angels of Promise"  4:35
9."Brilliant Adventure"  1:54
10."The Dreamers"  

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