Gli ultimi album del
millennio dovrebbero essere esemplari non soltanto in quanto summa di
tutto quello che è stato fatto in questi ultimi anni, ma anche in
quanto trampolino di lancio di quella che dovrebbe essere la musica
del futuro.
Se questa affermazione
fosse vera possiamo anche iniziare a temere il peggio.
Non so se sia un caso, ma nei mesi di settembre-inizi ottobre del 1999, c’è stata una concentrazione, come raramente se ne sono viste in passato, di nuovi lavori delle cosiddette “vecchie glorie”. Un’interminabile lista di nomi, alcuni dei quali avremmo voluto dimenticare, che confermano che anche nel 2000 la musica dovrà fare i conti con le esigenze commerciali..
Da Tom Waits a Iggi Pop, da Santana ai
Clash (resuscitati dal nulla) agli Eurythmics e ai Pet Shop Boys,
passando per Sting, Crosby, Still, Nash e Young, Ringo
Starr, l’autobiografia di Boy George e gli italiani Den Harrow, Lucio Dalla e
Antonello Venditti.
Entrando in un negozio di dischi sembra di tornare indietro di almeno quindici anni.
Entrando in un negozio di dischi sembra di tornare indietro di almeno quindici anni.
Ma il 5 di Ottobre un altro big ha
deciso di regalarci un’ultima fatica prima del trapasso secolare.
Ma non è un big qualsiasi. E’ il big per eccellenza, il Duca
Bianco, David Bowie, naturalmente.
52 anni, più di trenta dischi
all’attivo, David Bowie è stato ed è, forse, l’icona più
rappresentativa della musica pop e non solo.
Un giornale specializzato inglese
qualche anno fa sosteneva, con non poca ironia, che se un giorno
giungesse un alieno sulla terra e volesse sapere tutto sulla musica
degli ultimi trent’anni, gli basterebbe comprarsi tutti i dischi di
Bowie.
Istrionico, il duca non si è mai
fissato su un genere o su alcune particolari sonorità, ma si è
sempre adattato; è cambiato con i tempi, è passato dal rock più
aggressivo degli anni ’60, alle atmosfere cupe degli anni ’70 per
poi formare i Tin Machine strizzando l’occhio alla new wave, alla
dance e a tutto quello che ha fatto tendenza.
Immaginare poi come sarebbe stato il
suo nuovo disco era praticamente impossibile in quanto doveva
raccogliere l’eredità di un album estremo quale è stato
Earthling, il suo precedente lavoro. Uscito nel 1997 in piena febbre
elettronica, Bowie si era dato anima e corpo per cercare di inserirsi
nel nuovo ambiente Jungle e Drum&Bass e lo ha fatto con questo
lavoro che a mio avviso è uno dei migliori tra tutti quelli fatti da
artisti che avevano intrapreso quella strada proveniendo da un altro
ambito musicale.
Così ben riuscito da far pensare non
tanto ad un tributo di Bowie alla musica elettronica ma ad una vera e
propria conversione. Non sono passati neanche due anni ed ecco che
torna con Hours…, il nuovo disco, in cui ci conferma quanto fare
previsioni sul suo futuro sia inutile.
Un album spiazzante. Sinceramente non
ho ancora capito se siamo di fronte ad un capolavoro o ad un semplice
(leggi: inutile) ritorno al passato.
Ad un primo ascolto tutto sembrerebbe
propendere per la seconda ipotesi. Le canzoni suonano tutte molto
simili fra loro, le melodie sono tipicamente bowieane, quasi banali,
gli arrangiamenti sono minimali, gli strumenti suonati nella maniera
più canonica possibile, i debiti con il passato sono enormi, tanto
con il suo passato, quello di Space Oddity, quanto alle magiche
atmosfere retrò di Marc Bolan dei T-Rex (scomparso da qualche anno)
in The Pretty things are going to hell, o ai suoni duri di New Angel
of Promise, quasi punk, che fanno venire in mente i Sex Pistols.
Ma delle canzoni del genere divengono
una cornice non solo azzeccata ma quasi necessaria quando ci si
addentra nell’analisi dei testi. Il Bowie freddo e sicuro di se
nella sua lotta “politically correct” contro tutto e tutti,
lascia il posto ad un uomo giunto ormai ad un punto della vita in cui
si comincia a fare i conti con il tempo passato e quello che ci
resta, ad avere paura per quella che è la fine inevitabile di ogni
essere umano: la morte. Tutto il lavoro non è altro che il trionfo
di questi concetti, dalla copertina, in cui vediamo un Bowie come
morto e soccorso da un angelo che ha il suo volto, quasi a sperare
che dopo vi sia qualcosa, ai semplici titoli delle canzoni (Qualcosa
nell’aria, Sopravvivo, Se sognassi la mia vita, Cosa sta
accadendo?, Le cose più belle stanno andando all’inferno, Nuovi
angeli della speranza e I Sognatori) fino, naturalmente, alle
liriche. Si può pescare a caso per avere una conferma di quello che
sto dicendo. In Thursday’s Child dice: "Per tutta la vita ho cercato
con grande fatica di dare il meglio di me, ma non è successo nulla
di bello lo stesso". In Seven: "gli dei hanno dimenticato di avermi
creato così anch'io ho dimenticato loro".
In un atmosfera del genere, gli arrangiamenti semplici di cui parlavamo prima sono gli ideali per dare più risalto al testo; allo stesso tempo tornare alla musica di venti anni fa in perfetto stile Bowie diviene quasi un tentativo di esorcizzare il tempo che passa.
Un Bowie che per la prima volta parla
al cuore, un Bowie che per la prima volta da più importanza ai testi
che alla musica vera e propria, un Bowie come non lo avremmo mai
immaginato.
Ma che non convince del tutto.
Ma che non convince del tutto.
mercoledì 13 ottobre 1999
La scheda dell'album da Wikipedia:
David Bowie - Hours...
Released | 4 October 1999 |
---|---|
Recorded | Seaview, Bermuda |
Genre | Alternative rock, art rock,experimental rock[1] |
Length | 47:06 |
Label | Virgin – V 2900 |
Producer | David Bowie and Reeves Gabrels |
Track listing
All songs written and composed by David Bowie and Reeves Gabrels, except "What's Really Happening?" lyrics by Alex Grant.
No. | Title | Length | |
---|---|---|---|
1. | "Thursday's Child" | 5:24 | |
2. | "Something in the Air" | 5:46 | |
3. | "Survive" | 4:11 | |
4. | "If I'm Dreaming My Life" | 7:04 | |
5. | "Seven" | 4:04 | |
6. | "What's Really Happening?" | 4:10 | |
7. | "The Pretty Things Are Going to Hell" | 4:40 | |
8. | "New Angels of Promise" | 4:35 | |
9. | "Brilliant Adventure" | 1:54 | |
10. | "The Dreamers" |
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